MARSILIO intervento 13/9/14 ADISD Padova

Congresso ADI-SD Morena Marsilio 13 Settembre 2014
1
SULLE ORME DEL TRAUMA: NARRATIVA DI VIAGGIO E MEMORIA
AUTOBIOGRAFICA IN CAMPO DEL SANGUE DI ERALDO AFFINATI

Questo intervento riguarda il canonico e scottante confronto fra l’eredità illuminista e Auschwitz,
verificato attraverso Campo del sangue di Eraldo Affinati, autore rappresentativo della narrativa
contemporanea nonché insegnante sensibile ai problemi didattici attuali.
Nel proporre Campo del sangue come uno dei testi-chiave per una didattica della letteratura più
recente, credo occorra tener conto, in via preliminare, di tre questioni o assunti:
1. Affinati è uno scrittore figlio del secondo Novecento, nato dopo Auschwitz, eppure riesce
a coniugare la razionalità, la postura etica e l’attitudine pedagogica con le tragiche smentite
novecentesche di questi principi che hanno i loro emblemi in Auschwitz, in Hiroshima,
nell’Arcipelago Gulag.
2. In questo suo testo narrativo sono ancora presenti, seppur mutati, e ibridati fra loro, due dei
generi letterari più tipici del Settecento, la narrazione autobiografica e il diario di viaggio.
3. Campo del sangue , proprio perché frutto della generazione “nata dopo”, può aiutare a
ostacolare la progressiva erosione e usura dell’esperienza e della memoria storica della
Shoah reificata e istituzionalizzata nel cosiddetto “Giorno della Memoria” spesso riproposto
nel tempo attraverso le pagine o i film di autori ben noti che rischiano di venire svuotati
della loro forza testimoniale e/o rappresentativa e percepiti come rituali, prescrittivi.
Donnarumma, delineando il “ritorno alla realtà” nelle scritture narrative ipermoderne, ha di
recente insistito sulla presenza, a metà degli anni ’90, di scrittori a forte “partecipazione alla
vita pubblica” che “credono che il racconto sia un modo del pensiero e della comprensione”1)
E’senza dubbio questa una delle cifre che hanno fatto di Campo del sangue un testo narrativo fuori
dal coro, originale nella struttura e pregnante nel contenuto: non a caso esso è stato accostato a
un altro testo della generazione “nata dopo”, Vedi alla voce : amore, pubblicato dall’israeliano
David Grossman nel 19862. In riferimento alla produzione italiana, va notato di passaggio come
in questi stessi anni Affinati non sia l’unico ad aver affrontato l’argomento dalla prospettiva
familiare: anche Helena Janeczek, in Lezioni di tenebra (1997) ripercorre con il suo italiano
d’adozione la storia della sua famiglia ebreo-polacca. Essa culmina nel viaggio in Polonia a
fianco della madre, che visita sia i luoghi di origine che quelli di sterminio della sua famiglia.2)
Ma per tornare ad Affinati, il richiamo a generi letterari di matrice saggistica e di ascendenza
settecentesca, ossia la narrazione autobiografica e il diario di viaggio, è consapevole e esibito;
nella Premessa Affinati ha infatti dichiarato:
Al mio ritorno […] certi appunti che già avevo scritto si sono intrecciati con le note prese
durante il cammino e hanno prodotto ulteriori riflessioni […]. in questa memoria collettiva
mi sono poi, per le ragioni storiche e autobiografiche di cui ho dato conto al lettore,
interamente rispecchiato.
Il punto di partenza del movimento conoscitivo di Affinati è dato da una “inchiesta” di matrice
personale, con un forte intento di ripristinare l’esperienza memoriale biografica e quella percettivocognitiva del viaggiatore che, attraversandoli, interiorizza i luoghi in un’epoca, la nostra, che si rappresenta come quella dell’inesperienza o come priva di trauma. Egli intraprende il suo viaggio a
piedi verso Auschwitz per darsi delle risposte alle domande che due figure familiari catalizzano:
quella del nonno partigiano trucidato e quella della madre scampata fortunosamente al lager. Del
primo, Affinati rievoca lapidariamente cattura e fucilazione e ascrive la scelta del nonno alla
“morale del sacrificio”, secondo cui la morte dell’individuo è comunque funzionale alla vittoria di
una causa superiore.
Anche intorno a Maddalena, la madre di Affinati, si affolla una ridda di riflessioni e di interrogativi:
perché, caricata sui treni diretti in Polonia, non era stata chiusa nei carri piombati? Era forse, si
chiede ora il figlio, una prigioniera destinata ad una “baracca dei tristi piaceri”? 3) E perché era stata
collocata in un vagone in cui la vigilanza fu così blanda da permetterle di comunicare con un
estraneo in bicicletta che si offrì di portarla in salvo? Sono domande destinate a rimanere senza
risposta.
Ma le ragioni autobiografiche si dipanano soprattutto nei primi capitoli del libro: quando il viaggio
porta Affinati fuori dai confini italiani, la testimonianza soggettiva si dirada per lasciare il posto a
molteplici altre voci cui l’autore dà spazio con le frequenti citazioni che si alternano al suo diario di
viaggio.
Infatti con l’autobiografia, l’esperienza del viaggio è la caratteristica testuale dominante di
Campo del sangue e, al contempo, il segno della sua indiretta matrice “illuminista”. Le élites
culturali d’Europa che nel ‘700 percorrevano il continente nel Gran Tour fissavano la loro
esperienza o con una fitta rete di scambi epistolari o tramite il travel book, diario che registrava i
fatti minuti occorsi, le notizie relative a tratti geografici, usi, caratteristiche dei luoghi visitati, le
emozioni e le riflessioni del viaggiatore 4).
In Campo del sangue Affinati sembra riappropriarsi di tale modalità espositiva, coniugandola però
con la sua intima essenza di “reduce”. E’ evidente, infatti, che l’obiettivo da raggiungere è
esattamente opposto rispetto a quello settecentesco: la meta sarà la capitale dell’orrore delle
coscienze novecentesche, il luogo della negazione della cultura e della razionalità, il posto dove si è
vissuta la disumanità assoluta. Questa direzione informa di sé il travel book dell’autore romano: per
farne esperienza basterà osservare la differente percezione spaziale e mentale che Affinati ha
dell’Austria rispetto ai paesi che hanno fatto parte della cortina di ferro. In effetti la prima viene a
più riprese descritta come un paese “da cartolina”5): nei suoi villaggi lacustri “l’acqua scintilla di
luci come nella locandina di un vecchio film hollywoodiano”6). E’ un paesaggio che stride con la
meta ultima del viaggio di Affinati e, talvolta, sembra disturbarlo. L’avvicinamento all’Ungheria e
poi l’ingresso nella Repubblica slovacca, pertanto, vengono accolti con sguardo benevolo, come
l’approdo a qualcosa d’essenziale 7) per quanto lacerato dalle tracce di un comunismo ibridato alla
modernità occidentale senza soluzione di continuità.
Il livello emotivo si innalza nella fase finale del viaggio: le parti saggistiche sono rese drammatiche
dalle riflessioni sulle ragioni antropologiche che hanno determinato la Shoah nonché dal “catalogo”
di intellettuali morti suicidi per essersi caricati sulle spalle, come dei capri espiatori, tutte le
efferatezze di cui l’uomo è stato capace. Gli ultimi tre capitoli sono dedicati alla permanenza a
Auschwitz e si giunge all’acme di questa esperienza.
La meticolosa pianificazione, la progettazione ordinata della “corte dell’orrore” rimandano ancora
una volta alla razionalità stravolta di chi ha voluto l’universo concentrazionario e Affinati, lì, rivive
il trauma in modo secondario ma non emotivamente anestetizzato, e in tal modo ne salva la
dicibilità: la caotica fuga di riflessioni e di testimonianze che si avvicendano nella mente dello
scrittore producono in lui una sorta di trance che lo porta a girovagare “disorientato e confuso”8).
Tutti i fantasmi che lo hanno accompagnato nel suo singolare iter gli si affollato intorno all’interno
del lager, compiendo una sorta di danza macabra che lo comprime fisicamente e lo porta quasi allo
svenimento: nel campo sente il respiro venire meno, le gambe deboli, la morte lambirlo; poi
percepisce la vita riemergere prepotentemente nella forma dell’egoistico istinto di sopravvivenza
degli internati; e viene trovato, come un reduce deperito ma ancora attaccato alla vita, dalla
guardia polacca che, senza fare domande, lo riaccompagna all’uscita poco prima della chiusura del
campo-museo:
Siamo sfilati fra i Block in perfetto silenzio, spalla a spalla, […]. Ho pensato: questo è il
corpo del Novecento, il campo del sangue, il vero giardino di pietra del tempo che abbiamo
vissuto.9)
Insomma, per concludere, se si ritiene che, oggi, a scuola, la memoria della Shoah rischi una
grave perdita di senso storico e cognitivo, ci si deve chiedere le cause e trovare dei correttivi. Non
si tratta solo, banalmente, della deprecata irradiazione mediatica o di una sempre più esangue
“volontà” di ricordare da parte degli studenti: è probabilmente anche, in modo ben più sotterraneo e
profondo, il risultato della rimozione di una violenza storica che da sempre abita l’Occidente (in
quel cuore di tenebra del suo passato coloniale accompagnato da altri, secolari stermini). Se la
scommessa per noi docenti sta nell’attribuzione di una forza rivelatrice e conoscitiva all’esperienza
letteraria, possono costituire una risorsa di esperienza i testi prodotti dalle generazioni “nate dopo”
che, pur non avendo vissuto direttamente l’ulcerazione del trauma, la possono ricostruire in forme
mediate attraverso le memorie familiari, ponendo in tal modo in dialogo passato e presente e
riportando in primo piano quelli che Affinati definisce “la mostruosità del piccolo burocrate” e “lo
scatto predatorio” che, come ha insegnato Levi, sono costanti antropologiche storicamente
esperibili, dicibili e misurabili.

___________________________________________________________

1 R. DONNARUMMA, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2014, pp.108 e p.119
2 A. Bertoni, L’Olocausto e l’identità letteraria, in Mappe della letteratura europea e mediterranea, a c. di G. M. Anselmi, Bruno Mondadori, Milano, 2000, p. 200.
3 Affinati se lo chiede quando giunge al confine a Tarvisio “Il viaggio verso i campi rappresentava una vera iniziazione. Mi sono chiesto il motivo per cui mia madre non fu rinchiusa nei vagoni piombati che stavano a pochi metri da lei. Probabilmente era riservata a qualche ufficiale. C’è un libro che racconta uno di questi destini: La casa delle bambole di Ka-Tzetnik 135633. In mezzo al petto delle ragazze prescelte veniva tatuata la scritta: Feld- Hure. Prostituta da campo” in Campo del sangue p.29. L’espressione “baracca dei tristi piaceri” è invece mutuata dall’omonimo titolo di un libro di Helga Scheneider, autrice tedesca che vive in Italia e ha scelto l’italiano come lingua delle sue scritture narrative con le quali da anni rielabora il trauma personale e collettivo del nazi-fascismo e della deportazione.
4 Per una trattazione della letteratura odeoporica italiana si rimanda al volume di R.RICORDA, La letteratura di viaggio in Italia. Dal Settecento a oggi, Brescia, La Scuola, 2012.
5 E.AFFINATI, Op. cit., p.35
6 Ibidem, p.32
7 Ibidem, p. 78
8 Ibidem, p.151
9 Ibidem, p.153