Il 16 dicembre 2013 è mancata Paola Fertitta, docente di Palermo tra le fondatrici dell'ADI SD, vivace interprete della didattica dell'italiano con collaborazioni in libri di testo, organizzazione e partecipazione a convegni, lavori teatrali da lei stessa messi in scena. Paola si è profusa in modo pieno e convinto per la scuola.
Nello sgomento per la sua perdita, a lei va il nostro pensiero riconoscente e affettuoso per tutto ciò che da donna coraggiosa e insegnante impegnata ci ha trasmesso.
E vogliamo ricordare il suo stile, le sue umanissime analisi letterarie, riproponendo il suo intervento al Salinafilmfestival 2008.
Sit tibi terra levis
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Workshop docenti Salinadocfest , 25 settembre 2008
RACCONTARE LE STRADE
Paola Fertitta
I testi
selezionati per questo percorso, tutti di narrativa, racconti e romanzi, sono
accomunati dalla medesima angolatura tematica e dal fatto che sono compresi in
un arco temporale di un sessantennio circa, dal dopoguerra ad oggi. Sono invece
diversi per come ognuno di essi si accosta al tema e lo racconta e per gli
ambiti geografici e culturali cui appartengono, gli Stati Uniti e l’Italia.
Dal momento che nessun percorso a
tema può mai essere esaustivo, qualunque proposta presuppone una selezione
forte in base agli obiettivi didattici che il docente si propone e ai criteri
di valore che vuole seguire. Il tema diviene da un lato grimaldello per entrare
all’interno di ogni singolo testo ed interpretarne il senso, dall’altro
strumento per cogliere il nesso tra testo e contesto e fare dell’esperienza
della lettura l’occasione per riflettere sul senso della realtà, la vicenda
collettiva in cui tutti siamo coinvolti, autori e lettori, docenti e studenti.
In
letteratura, come nel cinema, la strada
è un cronotopo. Il termine cronotopo, coniato nell’ambito della fisica, venne
usato in campo letterario da Bachtin per
indicare l’inscindibilità dello spazio e del tempo in una narrazione. I
cronotopi hanno funzione d’intreccio; sono cioè i centri organizzativi dove si
allacciano e si sciolgono i nodi della trama narrativa. Danno inoltre evidenza
concreta, figurativa, agli elementi astratti di un testo (considerazioni,
riflessioni, idee) e hanno quella che Bachtin definisce una coloritura valutativo-emozionale.
Ai cronotopi si intrecciano motivi e temi in complessi rapporti
reciproci. Al cronotopo della strada
ad esempio si lega spesso il motivo
cronotopico dell’incontro. La strada
è per eccellenza luogo di incontri. Sulla strada
si intersecano in un punto temporale e spaziale, per casualità o per destino,
le vie spaziali e temporali di personaggi diversi. Nella tradizione letteraria la
strada ha valenza allegorica di cammino della vita; a livello simbolico è
immagine del viaggio e contiene in sé il senso del fluire del tempo.
L’immagine
della strada del testo scelto in
apertura del percorso sembra appartenere a un passato lontano, mitico, e non
avere legami col presente.
Il testo è La strada, uno dei Dialoghi con Leucò di Pavese.
Quando uscì il
libro nel 1947 era un momento di dominante realismo, in cui la cultura del
dopoguerra imponeva la trattazione pressoché esclusiva di argomenti legati alla
guerra, alla resistenza, o alle difficoltà dell’uomo a vivere ‘il giorno dopo’.
I Dialoghi sembrarono a molti un tradimento
all’etica neorealista; ma nella rivisitazione dei miti, pur trascendendo il
contingente del momento storico, Pavese riporta le angosce e le perplessità
dell’uomo novecentesco che, uscito da una drammatica guerra, si interroga sulle
proprie possibilità di scelta e di intervento. La volontà di capire il presente
porta lo scrittore neorealista a interrogare i grandi miti del passato,
trasferendo in essi passioni e idee del proprio tempo.
Il mito - scriveva Pavese ne Il mestiere di vivere in data 20
febbraio 1946 - è un linguaggio, un mezzo
espressivo, un vivaio di simboli […]. Quando riportiamo un episodio mitico, che
ci è familiare dall’infanzia, dalla scuola, ci bastano poche righe per rendere
un midollo di realtà che vivifica e nutre tutto un organismo di passione, di
stato umano, tutto un complesso concettuale.
La strada nel dialogo è quella percorsa da
Edipo dopo aver lasciato Tebe, dopo che la tragedia si è compiuta, dopo che si
è compiuto il suo destino.
E’ il decimo
dialogo della raccolta che comprende in tutto ventisette dialoghi che hanno
come protagonisti personaggi della mitologia greca e latina. Edipo era stato
protagonista anche del terzo, I ciechi, che
lo vede a colloquio col cieco indovino Tiresia. Ne I ciechi Edipo è giovane e inconsapevole e Tiresia, che sa, non gli
vuole svelare la durezza del destino, di cui è metafora la roccia.
Anche ne I
ciechi Edipo parla di strade.
EDIPO:
Anch’io, Tiresia, ho fatto incontri
sulla strada di Tebe. E in uno di questi si è parlato dell’uomo – dall’infanzia
alla morte – si è toccata la roccia anche noi. Da quel giorno fui marito e fui
padre, e re di Tebe. Non c’è nulla d’ambiguo o di vano, per me, nei miei
giorni.
TIRESIA: Non sei il solo, Edipo, a creder
questo. Ma la roccia non si tocca a parole….
La strada dunque aveva già segnato le tappe
del destino di Edipo: a un crocicchio di strade, Edipo aveva incontrato Laio,
che non sa essere suo padre e che uccide per un diverbio di precedenza; a un
crocicchio di strade avrebbe poi incontrato la sfinge, il cui enigma parla
dell’uomo, dall’infanzia alla morte. Quando Tiresia gli risponde la roccia non si tocca a parole rivendica
il valore dell’esperienza sulla parola, lezione che Edipo conosce ormai bene
nel dialogo successivo quando, cieco, vagabondo e disperato, rivolgendosi a un
mendicante con cui parla di strade e di destino, dirà: Altro è parlare, altro soffrire, amico. Ma certo parlando, qualcosa si
placa nel cuore. Parlare è un poco andare per le strade giorno e notte a modo
nostro senza meta…
La parola
metabolizza il dolore, dà corpo e valore all’esperienza, ma è il cammino sulla
strada
ad assumere nel testo un forte
valore simbolico.
-
non
saprai mai se ciò che hai fatto lo hai voluto…ma certo la libera strada ha
qualcosa di umano, di unicamente umano. Nella sua solitudine tortuosa è come
l’immagine di quel dolore che ci scava. […]
L’uomo non
conosce il suo destino e si illude sulla libertà o sul potere della volontà, ma
il camminare, simbolo dell’umana ricerca di senso, su una strada tracciata e
definita, porterà al convincimento doloroso che il cammino sia stato già
tracciato dal destino e che non esista percorso alternativo, per cui ogni uomo
è vittima delle stesse proprie azioni e il destino unico arbitro.
-
Il
mio destino non è stato di aver perso qualcosa. […] avrei potuto essere un uomo
come gli altri. E invece no, c’era il destino. Dovevo andare a capitare proprio
a Tebe. Dovevo uccidere quel vecchio. Generare quei figli. Val la pena di fare
qualcosa ch’era già fatta quando ancora non c’eri?
La strada in Pavese è dunque immagine del
destino, e il tema si inserisce nella riflessione dello scrittore sul destino,
su cui spesso ritorna nel Mestiere di
vivere.
E’ destino ciò che si fa senza saperlo,
abbandonandosi./In un dato senso, tutto è destino, annoterà il 2 gennaio
1950, all’alba dell’anno che ne avrebbe visto la morte: libera scelta o
destino?
Nelle parole
del mendicante invece la strada è il
luogo del viaggio e della conoscenza: “hai
goduto delle cose, il risveglio e il riposo, e hai battuto le strade”. Ma
in fondo il dialogo è un confronto con le contraddizioni del proprio essere.
Il 25 aprile
1945 Pavese annotava nel suo diario: Far la strada e incontrare
meraviglie, ecco il grande motivo. Il
giorno che decretava la fine della guerra era infatti il giorno in cui tutte le
meraviglie erano ancora possibili, in cui tutte le strade sembravano
percorribili.
Sul tema storia e destino è stato pubblicato nel 2007 da Einaudi un interessante saggio
di Aldo Schiavone, storico e giornalista. Le domande esistenziali che
l’intellettuale Pavese si poneva sessant’anni fa sono le stesse che gli
intellettuali di oggi si pongono, ma, in uno scenario completamente stravolto,
le risposte non potranno essere ovviamente le stesse.
Schiavone
afferma che l’ultimo tratto del percorso della nostra civiltà ci ha condotto a
un punto in cui è necessario ridefinire il senso della presenza dell’uomo nello
spazio e nel tempo, il significato e il valore delle nostre esistenze e delle
nostre scelte. L’accelerazione senza uguali con cui l’innovazione tecnologica
sta sovvertendo le nostre pratiche quotidiane, influisce nell’economia, nella
politica, nella storia, nella costruzione stessa delle nostre personalità.
Tanta velocità la stiamo pagando a caro prezzo. Stiamo perdendo il senso dello
spazio e del tempo nel nuovo cronotopo della globalità e della contemporaneità.
Insieme al futuro stiamo perdendo il passato e, con lui, il senso della storia.
E un presente indecifrato, incapace
di dare una misura al tempo e a se stesso […] è portato a mescolare in modo azzardato irresponsabilità e paura
della propria potenza, e ciò a sua volta non può condurre che al terrore di se stessi, dei
propri mezzi e delle proprie possibilità.
Seguire le
modificazione del tema nei testi letterari ci aiuta a seguire e a cogliere i
profondi cambiamenti del Novecento, contrassegnati appunto dalla velocità.
Emblema della
velocità è divenuta l’automobile, che
ha modificato, come ben sappiamo, volto, numero e funzione delle strade reali
e, nell’immaginario, la determinazione spazio-temporale del cronotopo strada. E’ significativo a tale
proposito uno dei racconti de L’uomo
invaso (1986) di Gesualdo
Bufalino, ‘La morte di Giufà’. Bufalino
fa morire il personaggio di Giufà sulla strada, ucciso da un’auto nella prima
corsa automobilistica italiana, all’alba del Novecento. Il personaggio di Giufà
è un personaggio che ha origine antiche, arabe, legate al mondo contadino e al
ciclo delle stagioni. Ecco perché Gesualdo Bufalino ne decreta la morte: il personaggio tragicomico di Giufà non
può sopravvivere in un’era che dimostra di non aver pietà per i più deboli.
Storie di Giufà, ne so tante. […] Vi racconterò la sua morte...[…]
Da quanto tempo gli pesa questa vita pellegrina di salire e scendere e
strisciare, e mangiare polvere di trazzera, e bere acqua di truogolo come i
maiali; con sonni di ventura, che non sai quando cominciano e quando li romperà
sul più bello un forcone di contadino. Da quanti anni? S'imbroglia con le dita,
Giufà, nel contare. […] Eppure, alla fine dei conti, non è stata una brutta
vita, per come gli è capitato di viverla, di stagione in stagione con piogge e
soli, caldi e geli, per aie di campi e vanedde di paese, con tante voci d'uomo
che gli tornano ora a sussurrare familiarmente dentro le orecchie. Che suono
amoroso ha la voce umana, che concerto amoroso è la vita, eseguito da una banda
di mille e mille strumenti, frulli d'ali, gorgoglìo di torrenti, vento notturno
fra le case... un concerto di crepiti, bramiti, aneliti, uggiolii, un concerto
ch'è di uomini e bestie, di terra, aria e mare, ma che finalmente è la musica
stessa, ineffabile, del vivere […]
E’ un canto di
lode alla vita qual era ancora possibile prima dell’avvento della modernità.
Ma ora lo
stradale…pare abitato, scosso da zoccoli
strani. Chissà che cosa, una cosa pesante, di tanto in tanto lo squassa. Giufà
ne ha sentito parlare, di questi carri di ferro che corrono soli su quattro
ruote, senza un mulo o cavallo che li tiri; e fanno rumore, e mandano lampi.
[…] ecco, gli pare, a Giufà, che tutta
la terra stia male e urli di doglia senza potere sgravarsi. Peggio del
terremoto d'altr'anno, che fu cosa della natura. Mentre oggi sono gli uomini a
farsi male da sé... […] Scavalca la siepe, posa le piante scalze sul sodo della
massicciata. Per istupidirsi e fermarsi di botto, accecato da due fari che gli
si gettano addosso, sbucati dalla svolta vicina, all'impensata. Capisce che
deve scappare e per un istante lo vuole, ma si sente da quegli occhi cercato,
voluto. Allora corre incontro al nemico e non sa perché, corre incontro al
diavolo a braccia aperte (Giufà, fermati, dove vai? quell'ingegno di ferro non
t’appartiene, l’hanno inventato gli altri contro di te, contro la tua felicità
rusticana…). Corre incontro al diavolo senza segnarsi, sente con ira e stupore
le quattro zampe impennarglisi sopra e ricadergli sul petto, schiantargli le
ossa, sbriciolargli insieme alle costole, nascosto fra pelle e camicia, il bottino
d'una gallina...
Era il 6 maggio 1906, giorno della prima Targa Florio, ma Giufà che ne
sapeva?
E’ una data
storica. La gara, si svolse in Sicilia
lungo le strade delle Madonie: un percorso misto di salite e di discese, di curve e di
rettilinei, di attraversamenti di paesi. Fu un fatto mondano oltre che
sportivo. Sulle tribune di Cerda l’alta borghesia e l’aristocrazia siciliana
dell’epoca applaudivano all’ingresso della modernità, mentre il personaggio di
Giufà, che incarna tutti i vinti, tutti i deboli, tutti i diversi, è destinato
a soccombere perché fuori dai ritmi della vita moderna.
Nella
narrativa statunitense, il connubio tra il cronotopo della strada e il tema
dell’automobile aveva avuto la sua consacrazione col romanzo/manifesto di
un’intera generazione: On the road –
Sulla strada di Kerouac (1957).
La generazione è la beat generation,
quella dei giovani che negli anni ’50 rifiutarono i valori tradizionali
dell’etica americana. La strada nel
romanzo diviene immagine concreta di una scelta di vita fuori dal chiuso del
sistema borghese e il viaggio in auto espressione della volontà di tagliare i
ponti con le tradizioni per una ricerca che non ammette lunghe soste né arrivi
definitivi.
La novità del
romanzo non era solo nei temi ma anche nello stile, improntato sulla
spontaneità. L’anticonformismo dei contenuti e dello stile spiega la riluttanza
degli editori e dei critici e l’immediato successo di pubblico. L’edizione
integrale di On the road è stata
pubblicata solo al cinquantenario dalla prima pubblicazione, nel 2007. Nuovi
lettori si sono aggiunti così ai vecchi fan di un romanzo-culto. Dal romanzo,
un’immagine emblematica:
la macchina filava dritta come una freccia, senza deviare mai dalla
riga bianca al centro della strada, che scorreva baciando la ruota anteriore
sinistra.
Alla strada come luogo di incontri e formazione, si contrappone, nell’immaginario
degli ultimi decenni, l’autostrada come non
luogo, termine coniato nel 1999 dall’antropologo francese Marc Augè. I non luoghi sono rappresentativi
dell’epoca postmoderna, caratterizzata dalla provvisorietà e
dall’individualismo estremo, e sono quegli spazi in cui un gran numero di
individui si incrocia senza entrare in relazione (autostrade, aeroporti, grandi
centri commerciali).
Il non luogo dell’autostrada come immagine concreta della perdita di
relazione autentica è il perno su cui ruota l’esile trama di un racconto del
1967 di Italo Calvino, Il guidatore
notturno, in cui l’incontro tra due innamorati viene sostituito da una
corsa notturna in una corsia dell’autostrada dove solo i fari dell’auto
dell’uomo, forse, incrociano i fari dell’auto della donna nella corsia opposta.
Anche luoghi e persone non hanno più nome e vengono semplicemente indicati con
le lettere dell’alfabeto. L’io narrante dice di stare andando dalla città A,
dove abita, alla città B, dove abita la sua fidanzata, dopo un litigio
telefonico con lei, indicata con la lettera Y , che lo aveva minacciato di telefonare
a Z, l’eterno incomodo rivale. La prima intenzione dell’uomo è quella di un
‘faccia a faccia’ chiarificatore con la donna, da qui la scelta di recarsi
subito da lei, ma la corsa in auto nell’autostrada lo porterà via via a perdere
il concetto di tempo mentre il profilo dei luoghi che si annulla
nell’indistinto della notte denuncia a livello narrativo la perdita di senso
tipica della postmodernità.
Certo mi sono messo al volante per arrivare da lei al più presto; ma
più vado avanti più mi rendo conto che il momento dell'arrivo non è il vero
fine della mia corsa. […] finché potremo controllare i nostri numeri telefonici
e non ci sarà nessuno a rispondere continueremo tutti e tre a scorrere avanti e
indietro lungo queste linee bianche, senza luoghi di partenza o di arrivo che
incombano gremiti di sensazioni e di significati sulla univocità della nostra
corsa, liberati finalmente dallo spessore ingombrante delle nostre persone e
voci e stati d’animo, ridotti a segnali luminosi, solo modo d’essere
appropriato a chi vuole identificarsi a ciò che dice senza il ronzio deformante
che la presenza nostra o altrui trasmette a ciò che diciamo. Certo il costo da
pagare è alto ma dobbiamo accettarlo: non potersi distinguere dai tanti segnali
che passano per questa via, ognuno con un suo significato che resta nascosto e
indecifrabile perché fuori di qui non c’è più nessuno capace di riceverci e d’
intenderci.
Anche
quando sembra abbandonarsi alla leggerezza postmoderna, in realtà la mancanza
di punti di riferimento da parte dell’individuo, perso in un labirinto e senza
volontà di uscirne, resta al centro della narrativa calviniana; l’ironia della
narrazione ne nasconde l’amarezza.
(Il guidatore notturno, pubblicato dapprima sul quotidiano Il giorno, venne poi incluso in Ti con zero e nel volume Amori difficili col titolo L’avventura di un automobilista. Nel
1984 entrò infine a far parte delle Cosmicomiche
vecchie e nuove.)
Una corsa
in autostrada sarà lo scenario anche di un racconto di Sebastiano Vassalli, tratto dalla raccolta La morte di Marx e altri racconti
(Einaudi 2006), ma l’obiettivo della narrazione è assai diverso. L’obiettivo è
infatti quello di dichiarare come conclusa e ormai improponibile la letteratura
della postmodernità. Lo sottolinea la dicitura in exergo alla prima parte della
raccolta formata da otto racconti tutti incentrati sul tema dell’automobile:
Ciao Kafka. Ciao Letteratura del Novecento.
Siete così lontani.
Riferendosi
al famoso romanzo kafkiano Vassalli vuol dire che la metamorfosi antropologica
oggi si è compiuta. Gregor Samsa, il
protagonista del romanzo di Kafka, che una mattina al risveglio si accorge di
essersi trasformato in mostruoso insetto, conserva un animo umano. L’uomo
automobilista di oggi, scrive Vassalli, strombetta, lampeggia e sorpassa anche
in luoghi destinati ad altre funzioni, come in ufficio o nella propria casa. E’ come se l’uomo, trasformatosi in
macchina, avesse perso le coordinate del vivere civile.
La
scrittura diviene cronaca del quotidiano, senza alcuna funzione consolatoria,
tipica della mediazione letteraria. La serie di racconti è preceduta e seguita
da pagine in corsivo riportanti la voce narrante dello stesso scrittore che
denuncia la ‘mutazione antropologica’ e termina con una visione apocalittica
sull’uomo del futuro.
Il titolo Una famiglia va al mare mostra una
situazione di normalità: una famigliola si reca in vacanza, come tante altre
nel mese di agosto. Ciò che Vassalli descrive potrebbe essere il retroscena di
tanti eventi che accadono nelle nostre strade, resi ancor più tragici dalla
banalità delle cause che li hanno provocati. Nei mesi di luglio e di agosto
strade e autostrade si ingorgano; gli autogrill si affollano; i telegiornali
della sera stendono drammatici bilanci di vittime nei numerosi incidenti:
voluti dal destino o dall’irresponsabilità umana?
La prima parte
del racconto è tutta all’insegna della comicità: dai frenetici preparativi, ai
discorsi in macchina tra genitori e bambini e tra madre e padre. Agli occhi
degli adulti è facile trovare i colpevoli per ogni disagio: la società di
massa, la globalizzazione, il
riscaldamento del pianeta. Gli altri non
rispettano le regole; in realtà neanche loro, ma bisogna adeguarsi alle
situazioni.
Nella seconda
parte del racconto cambiano tragicamente tono e scenario.
Nella parte
conclusiva il ritorno alla normalità sarà caratterizzato dal ‘grottesco’, che
si realizza quando elementi tragici e comici si mescolano tra loro.
[…] La madre si annoiava e accese la radio. Mentre
cercava di sintonizzarsi con un notiziario ci fu un rumore sopra l'automobile,
una specie di schiocco che le fece accapponare la pelle. Chiese al
marito: «Cos'è successo? Hai sentito anche tu ?» Lui però non le rispose,
perché in quello stesso momento aveva visto un'ombra nello specchietto
retrovisore esterno, di qualcosa che avrebbe potuto essere la carrozzina del
loro figlio più piccolo, sospesa sopra un' automobile alla loro sinistra. Si
sentirono un rumore di freni e un colpo secco, seguito da un altro rumore, di
vetri che andavano in frantumi; poi alle spalle della nostra famigliola si
scatenò una musica infernale, fatta di colpi che si succedevano senza
interruzioni, come se un gigante impazzito si fosse messo a battere con una
mazza su una lastra di bronzo. I clacson intrappolati tra le lamiere
incominciarono ad ululare; si videro le prime vampate di fuoco, le prime volute
di fumo. […] Dentro a quel fumo dovevano esserci dei morti e dei feriti, e mica
pochi! , rimasti incastrati tra le lamiere; fuori dal fumo c'erano degli uomini
e delle donne che correvano lungo il guard-rail o cercavano la salvezza nei
fossi o nei campi di fianco all’autostrada. E tutto ciò, pensò l'uomo, era
successo per colpa sua, e per una carrozzina legata male! […] «Dobbiamo
andarcene, -ribatté la donna. […]E’ inutile che continui a tormentarti. In un
mondo globalizzato come il nostro, ogni giorno succedono dei disastri sulle
strade, ma il traffico continua e la vita continua. Come si dice a teatro
quando muore qualcuno? Lo spettacolo deve proseguire...» […]
Quella
famigliola descritta nell’incipit con simpatia e umanità, è doppiamente
colpevole: prima la colpa dell’incoscienza e dell’incuria, per aver legato
maldestramente la carrozzina, poi quella dell’incapacità di assumersi le
proprie responsabilità. Leggerezza e irresponsabilità possono rendere il vivere
più facile, ma l’umanità e il vivere civile hanno bisogno di basi totalmente
opposte: consapevolezza e assunzione di responsabilità individuali.
Con questa
raccolta di racconti Vassalli dichiara apertamente la fine di una stagione
letteraria che era stata anche la
sua. L ’immagine di strade e autostrade era anche nella
premessa in corsivo al romanzo La chimera (1990).
Dalle finestre di questa casa si vede il nulla. Soprattutto d'inverno:
le montagne scompaiono, il cielo e la pianura diventano un tutto indistinto,
l'autostrada non c'è più, non c'è più niente. Nelle mattine d'estate, e nelle
sere d'autunno, il nulla invece è una pianura vaporante, con qualche albero qua
e là e un'autostrada che affiora dalla nebbia per scavalcare altre due strade,
due volte: […] Capita anche di tanto in tanto -diciamo venti, trenta volte in
un anno –che il nulla si trasformi in un paesaggio nitidissimo, […]Si vede
allora un orizzonte molto vasto, di decine e di centinaia di chilometri; con le
città e i villaggi e le opere dell'uomo inerpicate sui fianchi delle montagne,
e i fiumi che incominciano là dove finiscono le nevi, e le strade, e lo
scintillio di impercettibili automobili su quelle strade: un crocevia di vite,
di storie, di destini, di sogni; un palcoscenico grande come un'intera regione,
sopra cui si rappresentano, da sempre, le vicende e le gesta dei viventi in
questa parte di mondo. Un'illusione...
Un’illusione
la vita; il nulla l’unica realtà del presente; nel passato solo fantasmi
cancellati.
Guardando questo paesaggio, e questo nulla, ho capito che nel presente
non c’è niente che meriti d’essere raccontato. Il presente è rumore: milioni,
miliardi di voci che gridano, tutte insieme in tutte le lingue e cercando di
sopraffarsi l’una con l’altra, la parola “io” … Per cercare le chiavi del presente,
e per capirlo, bisogna uscire dal rumore: andare in fondo alla notte, o in
fondo al nulla…
Sembra dunque
che lo scrittore di oggi abbia compreso che, per capire il presente, i tempi
lunghi della metafora e della retorica non ci siano più concessi, che bisogna
sì affacciarsi alla finestra, ma ascoltare il rumore e liberare l’orizzonte da
maschere, veli e nebbie, affinché l’interpretazione della realtà diventi
effettivamente una ricerca di senso.
A
conclusione del percorso ho voluto scegliere due romanzi molto diversi tra loro
per stile, contenuti, obiettivi, provenienza culturale e generazionale, ma
accomunati significativamente sin dal titolo, dal tema della strada,
per entrambi chiave di lettura e leit-motiv semantico.
Il 2007,
oltre alla ripubblicazione del testo di Kerouac, ha visto infatti la
pubblicazione di due nuovi romanzi che ripropongono il tema on the road. Si tratta di due autori lontani, per età e
per luogo, e di scritture diverse: uno è il settantacinquenne americano Cormac
McCarthy, l'altra è la trentottenne italiana Simona Vinci. Il primo racconta il
cammino di un padre e del suo bambino verso una salvezza improbabile su una
strada circondata da città e natura distrutte da una catastrofe apocalittica.
La civiltà è defunta: rari resti del benessere perduto sono oggetto di ricerca
e saccheggio da parte di superstiti cannibali e crudeli. Del mondo cancellato
restano soltanto i tracciati delle strade che segnano il cammino da percorrere.
Il termine la strada, titolo del
romanzo, si ripete continuamente all’interno dei tanti brevi segmenti in cui si
frammenta il continuum narrativo, a sottolineare anche a livello semantico il
significato allegorico e il valore simbolico del tema. Anche nel secondo
romanzo, Strada provinciale 3 di
Simona Vinci, sin dal titolo, la strada in cui corre senza meta il personaggio
protagonista, ci fornisce la chiave di senso.
L’anno
prima dell’uscita del romanzo, nella primavera del 2006, La Repubblica aveva
pubblicato un articolo della Vinci, "Camminando
lungo la strada che taglia la vita", una lunga riflessione che si
conclude con l'appello a riappropriarci di “ciò
che dovrebbe essere nostro: le strade, lo spazio, i luoghi e il tempo.” La
strada è un cammino, un itinerario, scrive la Vinci nell’articolo, serve a mettere
in comunicazione luoghi distanti, serve perché le persone possano muoversi con
meno difficoltà nello spazio. Ma chi si mette in viaggio su una strada, rischia
inevitabilmente la vita.
Sotto i miei occhi, oggi, c'è la strada. L'asfalto
crepato e ruvido. Pieno di buchi, crateri, fenditure, mozziconi di sigaretta,
preservativi, merde di cane rinsecchite, gatti spiaccicati, piume d'uccello,
lattine accartocciate, frammenti di copertoni esplosi, chiodi, bulloni, pezzi
di ferro arrugginito, carcasse di animali ormai irriconoscibili. Niente idea di
progresso, collegamenti rapidi e sicuri, è una strada mortale, che attraversa
piccoli centri - paesi grandi, medi, minuscoli, frazioni - e li deturpa, li
soffoca, li ammutolisce. Con la lenta agonia dell'asfalto che si corrode sotto
milioni di pneumatici, agonia di falene schiantate contro i parabrezza, di
nùtrie spappolate, civette, incidenti mortali. E io sono di nuovo qui, parte di
questo movimento incessante, questa concrezione di tempo e storie e movimenti su
un nastro d'asfalto, a cercare di immaginare come era il mondo prima, prima
dell'ottimismo degli asfaltatori.
Tema,
riflessione e ricerca che fanno da sfondo a un altro testo della Vinci, Rovina (ed. VerdeNero), sempre del 2007, in cui la scrittrice
affronta il tema della speculazione edilizia, testo che prepara il romanzo Strada provinciale tre.
Rovina è un romanzo corale di denuncia.
Sette monologhi per sette interpreti, che confessano le loro microstorie di
rovina che si intrecciano con la storia di una rovina collettiva. Tutti i
personaggi sono coinvolti nella vicenda fallimentare di un cantiere che avrebbe
dovuto costruire villette mai ultimate. Ognuno di essi espone la propria
versione: l’insegnante che assiste a un omicidio; una coppia di acquirenti; la
proprietaria del terreno; il geometra che ha ideato il progetto; un operaio e
l’imprenditrice uccisa. Alla fine del libro il monologo della stessa
autrice.
Nel
2000, scrive la Vinci ,
aveva preso in affitto un appartamento ricavato da una villa settecentesca che
si apriva su un parco, ma il complesso condominiale si affacciava sulla strada
emiliana Provinciale Tre, detta anche Trasversale di pianura. In quella casa vi
ha abitato per anni, abituandosi ai ‘ruggiti
dei camion in corsa e al tremito leggero che scuoteva le pareti’. Spesso,
di sera, si recava al limite del parco e guardava passare i camion sulla
strada.
E’ così che ho cominciato a immaginare una storia. Solo che questa
storia non era come le altre che avevo scritto fino a quel momento, era una
storia che non mi permetteva di restarmene chiusa in casa davanti al computer,
come più o meno avevo sempre fatto, ma mi chiedeva di uscire, di raggiungere la
strada e mettermi a camminare. E così ho cominciato a camminare per ore in
mezzo ai camion, in preda ad una vera e propria ossessione, prendendo appunti,
fotografando gli incroci, le case quasi per mappare il territorio, per
appropriarsene; ma i luoghi cambiano continuamente, a velocità incredibile,
soprattutto quando diventano territorio di saccheggio e colonizzazione.
Sulla
Trasversale di pianura, la linea bianca della carreggiata sotto gli occhi, gli
spostamenti d’aria dei camion che la fanno barcollare, il suo cammino
solitario. Così, penso, è nato il personaggio di Vera, protagonista di Strada provinciale tre.
L’incipit
del romanzo è all’insegna dell’accelerazione, della velocità, della corsa verso
una imprecisata libertà:
Ha cominciato camminando, poi ha accelerato, passi sempre più lunghi,
rapidi e contratti. Uno di seguito all’altro. Una maratona e poi di colpo, lo
scatto: i fianchi che spingono verso l’alto, i muscoli delle gambe che si
rattrappiscono e si slanciano in avanti…
Non ha mai corso così. Non ricorda di averlo
mai fatto. Non ricorda niente.
Nessun
ricordo che possa dare al lettore una motivazione di quella corsa, di quella
fuga. Nella sua testa non c’è che una parola, libera. Non c’è ricordo. Non c’è passato. Non c’è futuro. Solo
presente. E un unico luogo: la
strada. Non ha meta; le sue preoccupazioni sono le necessità
materiali del momento: dove passare la notte, dove trovare da mangiare, da
bere. Ha con sé soltanto uno zainetto pressoché vuoto: né denaro, né cibo, né
biancheria, quel minimo che si porta con sé oggi, pensando che possa servirci
domani.
La strada
diverrà luogo di incontri. Alcuni saranno di solidarietà, di pietà, di
amicizia, anche d’amore, ma ci saranno anche incontri di abuso e violenza,
accettati passivamente. La sua è una fuga, ma non da un pericolo
insormontabile, né da una situazione insostenibile, né per paura. Fugge da una
vita troppo uguale, standardizzata, ma non c’è possibilità di fuggire da sé. La
vera libertà è solo un nome che non corrisponde al senso, come il suo, Vera.
Fra camion
che la fanno barcollare, gas di scarico che rendono l’aria irrespirabile, incontri
con persone in vario modo disagiate, si realizza la perdita d’identità del
personaggio. Quello di Vera è un doloroso percorso di formazione alla rovescia.
Vera corre
a piedi; chi percorre le strade in macchina non vede gli scarti, i rifiuti, i
residui che si accumulano sui bordi della strada, e che divengono simbolo di
una umanità povera ed emarginata. Paradossalmente
la corsa ai margini della strada si trasforma in viaggio di conoscenza, perchè permette
di accorgersi della povertà e della marginalità.
Il romanzo La strada, con cui Corman McCarthy ha
vinto il premio Pulitzer nel 2007, rivela le ansie e le paure dell’America di
oggi. Racconta un viaggio lungo e difficile, in uno scenario apocalittico, di
un uomo e di un bambino che hanno una strada come unica guida verso il mare.
Nell’orrore del cammino risulta più toccante e consolatorio il rapporto
bellissimo tra padre e figlio, l’uomo e il bambino, senza nomi di riferimento,
un rapporto basato su reciproci fiducia, difesa, amore, un rapporto che
dimostra che la vita continua in un infinito passaggio di testimone, tra il
mondo da non dimenticare e il nuovo orizzonte senza più colori.
Compagni del
cammino sulla strada sono il freddo, il disagio, la paura, la fame, la sete, la malattia. Non esiste
più la storia, la civiltà; non esistono più le città, le fabbriche, le auto;
non esiste più neanche il cielo, senza luce, cinereo. Esiste solo la strada,
perché soltanto le strade, pur coperte di cenere, il disastro non ha
cancellato. Cosa sia stata la causa non è detto, forse una guerra nucleare, o
la caduta di un meteorite, o un irresponsabile esperimento della scienza e
della tecnica. Il bambino non ha conoscenza di come fosse il mondo prima,
poiché quando il disastro è avvenuto la madre era incinta di lui. La morte del
mondo coincide con la sua nascita.
La catastrofe
ha rivelato il volto vero della società: una continua lotta di sopraffazione,
che vede gli esseri umani manicheamente divisi, tra cattivi e buoni, carnefici
e vittime.
Queste le parole
con cui il romanzo si chiude:
Una volta nei torrenti di montagna c'erano i salmerini. Li potevi
vedere fermi nell'acqua ambrata con la punta ambrata delle pinne che
ondeggiavano piano nella corrente. Sul dorso avevano dei disegni a vermicelli
che erano le mappe del mondo in divenire. Mappe e labirinti. Di una cosa che
non si poteva rimettere a posto. Che non si poteva riaggiustare. Nelle forre
dove vivevano ogni cosa era più antica dell'uomo, e vibrava di mistero.
Una volta…E’
questo il vero e profondo messaggio del libro, il passaggio di testimone tra
padri e figli (il fuoco che essi
dicono di portare con sé), basato sul mantenimento della memoria, che può
restituire un futuro anche quando sembra che ogni speranza sia perduta.
Riflettiamo
ora se nei due romanzi vi sia o meno un ritorno al realismo.
Per quanto
riguarda il romanzo della Vinci la risposta è sicuramente affermativa. Lo
dimostra la genesi stessa del romanzo, nato dalla volontà di documentare, quasi
di fotografare con lo zoom gli scarti che non si vedono, i rifiuti che vogliamo
ignorare ma su cui letteralmente e metaforicamente stiamo costruendo le basi
del futuro.
Siamo di fronte – scrive Raffaele Donnarumma
sul n. 57 di Allegoria – a un bisogno
morale di ritorno alla realtà senza garanzie di successo. […] Non un realismo
di scuola, ma una tensione realistica è forse oggi ciò che più di tutto può
restituire alla narrativa il suo senso, in primo luogo contro la stanchezza che
le autoassoluzioni postmoderne hanno generato in molti. […] Più che le
ambizioni del grande affresco o della sintesi sulle sorti dell’occidente, ci
servirebbe guardare con occhi ben aperti il mondo, e la miseria, in cui siamo.
Ed è proprio
questo che fa la Vinci
in Rovina e in Strada provinciale.
Per quanto
riguarda il romanzo dello scrittore statunitense esso si riallaccia al filone
apocalittico, iniziato negli ultimi decenni del Novecento, ben delineato nel
saggio Crolli di Marco Belpoliti,
edito da Einaudi nel 2005, che mette a confronto lo scenario letterario e artistico
prima e dopo l’11 settembre. Prima
dell’11 settembre l’America del benessere si compiaceva della propria
invulnerabilità, temeva l’apocalisse ma la percepiva come evento futuro e
eccezionale, da cui tutto sommato si sentiva immune. L’attesa della catastrofe,
vissuta con incoscienza e quasi con euforia, ha recuperato, dopo il brusco
risveglio di quel mattino dell’11 settembre 2001, il senso dell’orrore e del
dolore. Sembra che si siano definitivamente dissolti quelli che erano stati i
due assunti fondamentali dell’etica
postmoderna: la metabolizzazione dell’orrore e l’anestetizzazione delle
emozioni (citazione da Giovanna
Taviani , Allegoria n. 57). Orrore e emozione sono anzi gli
elementi che accompagnano il cammino del padre e del suo bambino sulla strada. Proprio perché ciò che viene azzerata
nel romanzo è la civiltà del nostro tempo e l’evento viene inserito all’interno
di coordinate spazio-temporali ben conosciute da autore e lettore, pur
stravolte, possiamo affermare che il romanzo nasce dall’esigenza di interrogare
e capire il nostro tempo.
Se del mondo senza colori delineato nel
romanzo non abbiamo fortunatamente esperienza, teniamo presente che in
letteratura è vero ciò che è verosimile: la letteratura è interpretazione del
mondo e l’immaginario letterario ci aiuta a cogliere nella realtà una possibile
verità.
Vorrei
concludere con le parole con cui Federico Bertoni chiude il suo saggio Realismo e letteratura (Einaudi 2007).
In una fase storica di travolgente invasione mediatica, ipertrofia informativa,
strapotere dell’immagine, ambiguità ideologica e irrazionalismo trionfante, è
ancora il momento – forse più che mai – di lanciare la sfida al labirinto, di
rivendicare una nuova istanza realista e un’idea di letteratura fondata sul
potere insostituibile della parola come strumento di costruzione e di
interpretazione del mondo.